Niccolò Canussio - De restitutione Patriae




NICCOLÒ CANUSSIO OVVERO L'ANTICO, SOSTANZA DEL PRESENTE

Paolo Mantovanelli

1. Vede la luce in questo volume, a cinque secoli dalla sua composizione, un'opera significativa per la storia del Friuli, il De restitutione patriae di Niccolò Canussio. Sull'autore, appartenente a famiglia cividalese d'antica nobiltà, notaio (anche presso la cancelleria patriarcale), provveditore della città e cancelliere, e sulle occasioni dell'opera, il lettore potrà trovare esaurienti ragguagli nella nota curata da Cesare Scalon. A noi basta qui ricordare che l'opera (*), scritta in aperta polemica con Marc'Antonio Coccia detto il Sabellico, che aveva voluto onorare Udine col nome di Hunnium, dagli Unni distruttori di Aquileia, e intesa a valorizzare e nobilitare per converso le origini e la storia di Cividale (Iulium / Forumiulium / Cividatum), antica colonia romana, a "restituirla" cioè in tutta la sua grandezza, presenta motivi d'interesse che trascendono l'occasione contingente.
Ma prima di toccare i motivi di tale interesse, va ricordato il patrono e fautore di questa impresa editoriale, cui gli impegni connessi alla professione di medico non hanno impedito di seguire con appassionata, diremmo sanguigna, partecipazione tutto il corso del lavoro. La metafora del sangue non è del resto fuori luogo, trattandosi di un odierno rappresentante dei Canussio, diretto discendente dell'autore, il dott. Orio Canussio, che in questo modo ha voluto onorare e la famiglia e la città d'origine. A lui quanti hanno collaborato all'impresa sono debitori, per la messe di suggerimenti frutto del sua conoscenza di cose cividalesi e friulane, attinta anche agli archivi di famiglia, nonché dei suoi interessi umanistici e letterari.
Al dott. Mario D'Angelo va il merito di aver ritrascritto il testo dell'opera con criteri che ne rendono accessibile la consultazione al lettore moderno, e inoltre quello della traduzione: un compito, quest'ultimo, talvolta arduo, per le difficoltà poste dal tipo particolare di latino rinascimentale usato dal Canussio, e per quelle legate all'interpretazione storico-antiquaria. Il D'Angelo l'ha svolto più che degnamente, con molte soluzioni felici, nel rispetto dell'originale ma non perdendo mai di vista il lettore moderno, ciò che sta poi alla base d'ogni buona traduzione. Di Cesare Scalon s'è detto. Infine, la dott. Cristina Moro ha curato le note, poi riviste e rimaneggiate dagli altri collaboratori e dal curatore.
Di tutti, chi scrive crede di interpretare il pensiero nel rivolgere all'Editore un vivo grazie per aver reso possibile l'impresa.

2. Il filologo classico incline a gettare lo sguardo curioso al di là dei propri abituali campi d'indagine non può non essere attirato dai fenomeni di lingua e stile presenti nel latino del Canussio. Quanto alla prima, fermo restando che agli specialisti del latino umanistico spetterà, eventualmente, il compito di definirne i caratteri fondamentali (né questa è comunque la sede per un'indagine capillare), non passeremo tuttavia sotto silenzio alcune particolarità, che fanno con ogni evidenza di questo latino non già il frutto di un recupero archeologico di forme classicheggianti, bensì l'espressione immediata (e perciò potenzialmente più viva) di una fase particolare attraversata in quell'ultimo scorcio di secolo dal latino colto, in un ambito, se vogliamo, circoscritto, eppure vitale. Alludiamo a certi fenomeni già da tempo in atto nel latino tardo, frutto del perenne divenire della lingua, quali lo scambio delle preposizioni, ad esempio de (destinato a divenire dominante) per a (nel Proemio: de situ patriae aggressus historiam), l'uso frequente (del resto già classico) di quo finale per ut anche in assenza di comparativo (I,6: quo ... tantam virium potentiam a suis finibus revocaret; così in I,11, 15, II,6 etc.), l'uso di quia + cong. invece dell'oggettiva (II,7: videns quia nil ... proficeret), etc.

3. Sarebbe tuttavia un errore pensare che il latino del Canussio si basi sopra un'inerte acquiescenza a modalità linguistiche contemporanee. Uno spoglio parziale del materiale lessicale del De restitutione, ad esempio, rivela una sorprendente presenza di elementi apuleiani (hapax, cioè termini usati solo una volta da Apuleio, o neoformazioni o termini d'uso prevalentemente apuleiano).
Com'è noto, a una vera e propria moda stilistica apuleiana si assiste nel panorama umanistico di fine Quattrocento, avente il suo massimo rappresentante nel Beroaldo, di cui nel 1500 uscirà a stampa a Bologna il commento ad Apuleio; e sul testo di Apuleio si svilupperà in parte la polemica tra il Beroaldo e G.B. Pio, suo allievo (C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare tra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, 80 sgg. e 88 sgg.). Un riflesso di tale moda dovette raggiungere anche quest'angolo del Friuli, a cui patrizi letterati come il Canussio furono evidentemente sensibili. Qualche esempio può essere sufficiente a dimostrare quanto detto.
Così nel Proemio l'accusa al Sabellico (quas [laudes] ... obliquata cervice subnervasti) di aver stroncato la gloria patria si avvale di un neologismo apuleiano, subnervare, usato con analogo senso metaforico (con calumnias) e nell'identica forma subnervasti nel De magia, 84 (mentre in Tertulliano e nella Vulgata ricorrerà nel senso proprio di "recidere i nervi delle gambe, sgarrettare"; in un senso simile Apuleio ha enervare, met. 8,30: poplites meos enervare). Neologismi apuleiani sono pure in I, 5 cunctim, cfr. Florida, 9, p.13 Helm, all'interno di una serie di avverbi in -im, tra cui anche discretim (vd. Claudia Facchini Tosi, Forma e suono in Apuleio, "Vichiana", n.s. 15 [1986], 141 sg.), quest'ultimo usato dal nostro in II, 10; e in I, 6 protermino (met. 9, 38).
Tuor, sost., di I, 13 è hapax apuleiano (De deo Socratis, 11), e così, dalla breve introduzione al II libro, examurgo (cfr. met. 4, 14). Famigerabilis di II, 8, citato da Varrone (ling. 6, 55) tra i derivati di fari, ricorre solo in Apuleio (quattro volte, met. 1, 7; 2, 21; 9, 5; 10, 17) prima di qualche sporadico uso cristiano; così pator di II, 9 ricorreva solo in Scribonio Largo (I sec. d.C.) prima di Apuleio (pure quattro volte: 1, 19; 3, 17; 10, 29; 11, 10). E ancora: neologismi apuleiani sono in II, 9 alumnari/-re (4 volte in Apuleio, quindi solo in Marziano Capella) e nimietas (5 volte in Apuleio, quindi, a partire da Tertulliano, nei Padri della Chiesa).
Hapax apuleiano (met. 7, 18) è superpondium di II, 10 come assicurano recenti commentatori del VII libro delle Metamorfosi (ediz. Groningen 1981), in base alle schede del Thesaurus linguae Latinae conservate a Monaco di Baviera.
Da dapsilem copiam elocutilis facundiae di met. 11, 3 dove elocutilis è hapax, deriva l'elocutilis facundia di II, 10 ma anche il successivo dapsili liberalitate (per quanto dapsilis sia grecismo attestato fin da Plauto).
Cito ancora come neoformazioni apuleiane incoram di II, 10; perflatilis di II, 12 (in iunctura con pator, vd. sopra, come in Apul. met. 3, 17). Tra gli hapax, ancora cohumido (cfr. met. 8, 9) di II, 12, splendido (verbo, cfr. De magia, 103) di II, 13, applex, cfr. met. 10, 22: appliciore nexu, come adpliciore gradu pure di II, 13. E si potrebbe continuare.
Quantitativamente forse meno cospicuo, ma non meno netto appare l'influsso di un altro autore del secondo secolo d.C., Gellio. Tanto a Gellio che ad Apuleio può essere fatta risalire una forma come ingeniatus (II, 10), presente in quegli autori quale arcaismo plautino, mentre gelliano (16, 11, 2) è virulentus in I, 9, come pure evibro (Gell. 1, 11, 1, ripreso poi da Ammiano Marcellino) in I, 16, omnifariam avv. (Gell. 12, 13, 20, poi in Macrobio etc.) in II, 7, pensiculate (Gell. 1, 3, 12) in II, 14 (il verbo pensiculo è in Gellio e Apuleio), inuber (Gell. 20, 8, 3, hapax) in II, 14, confusaneus (Gell. praef. 5, hapax, con doctrina) pure in II, 14 (con disciplina), etc. A Gellio (2, 1, 2) rinviano anche i nessi allitteranti perdius atque pernox di II, 9 (perdius anche in Apuleio) ed excitarentur atque evibrarentur (vd. sopra) di I, 16.

4. Per quanto riguarda lo stile si veda, dal cap. IV del I libro, la descrizione della morte di Attila: il quale in ... nuptiali pompa, inter proceres mensis accumbens, ex eduliis cenam opiparem helluatus, cum inter crapulandum pro more barbarico spumosos calices plures ingurgitasset, surgens a cena potulentus, novae nuptae concubitum petit. Oppure quest'altro passo dall'inizio del cap. VI: Odoacro in Italia mitius imperante, Theodoricus rex Gothorum, animo volvens pro soli sterilitate finibus auctioribus Thraciam proterminare, validissimo coacto exercitu, finitimas regiones circumquaque depopulatus expugnabat. Uno stile articolato attraverso serie, anche prolungate, di costruzioni participiali, al termine delle quali cade normalmente il verbo di modo finito: normalmente, ma non sempre, perché talvolta l'ultimo posto è lasciato, con effetto di rilievo, ad altri elementi della frase, come in questo ragguaglio sul ponte al Natisone: ... quem ... posteritas innovavit, antiquitatem imitata (II, 10): è l'antiquitas che sta a cuore al Canussio, di cui i posteri devono saper imitare le gesta (ciò che han fatto i suoi concittadini costruendo, ad imitazione degli antichi, un ponte che, con iperbole suggerita dall'amor patrio, è da lui assimilato prodigiosis pyramidum spectaculis).
Comunque, uno stile che si sviluppa più che nel senso dell'ipotassi, cioè attraverso il propagarsi verticale delle subordinate, in quello della paratassi, attraverso una proliferazione orizzontale di membri paritetici, si veda la fine di I, 4 (morte di Attila) o l'inizio di II, 6 (trasferimento della sede patriarcale).
Gli studiosi di Apuleio sanno bene che queste caratteristiche, se in parte rinviano alla grande tradizione storiografica (Sallustio, Livio, Tacito, Svetonio per quanto riguarda le costruzioni participiali con variatio dei participi; soprattutto Tacito per la paratassi e gli elementi in clausola diversi dal modo finito) - ma, al di fuori degli storici, si ricordi per la paratassi anche il "caso" senecano, cfr. A. Traina, Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca, Bologna 19782, 102 sg., cui si rinvia anche per un confronto stilistico Seneca - Apuleio, - sono esaltate al massimo proprio nello stile dello scrittore di Madaura (se ne vedano esempi significativi in M. Bernhard, Der Stil des Apuleius von Madaura, Stuttgart 1927 = Amsterdam 1965, 36 sgg.).
Dopo i puntuali riscontri lessicali sopra indicati, l'ipotesi di un riecheggiamento stilistico delle cadenze del periodo apuleiano non pare sia da escludere in assoluto.
Anche il frequente ricorso alla traiectio, separazione di membri sintatticamente legati (I, 1: prisca appellavit antiquitas; I, 9: venenarius obtulit pocillator; I, 10: scriptoriae opificibus artis; prostrata suscitantur ingenia; I, 15: ludos fieri publicos voluit; I, 16: celeri conspiciendus equo; consortis oblita Gisulfi; II, 12: alpestris benignitate situs; II, 14: vetusta testatur memoria; clara suscitantur ingenia, etc.), fa pensare, senza escludere altri possibili influssi, soprattutto ad Apuleio, dove il fenomeno è straordinariamente esteso (riguardando tra l'altro anche lo spostamento al secondo posto di namque,vd. Bernhard, 28; cfr. Canussio, I, 6 che lo estende più volte anche ad atque: II, 7; II, 11; II, 12 etc.). Né si devono trascurare le allitterazioni (I, 6: passim profligatae; II, 9: perdius atque pernox etc.), i giochi etimologici: I, 6: cedere et decedere (simile I, 16); II, 12: otium est in negotio etc., nonché l'uso sobrio della metafora (vd. più avanti).
Qualunque sia l'effettiva incidenza sul piano stilistico generale di questi singoli procedimenti, la loro presenza testimonia della volontà di conferire al testo, attraverso l'elaborazione formale, dignità letteraria.
È la stessa volontà che stimola il gusto della citazione poetica, soprattutto da Virgilio: un verso delle Bucoliche (3, 111) fa da titolo all'ultimo capitolo dell'opera: Claudite iam rivos pueri, sat prata biberunt, un paio di versi dell'Eneide (6, 129 sg.) avevano così concluso il cap. XIV del II libro sulla gloria dei poeti: Pauci quos aequus amavit /Iuppiter aut ardens evexit ad aethera virtus.
Ma anche da Ovidio (Her. 2, 85), nell'ironico exitus acta probat con cui si commentala vanità degli sforzi del Patriarca Poppo per rendere abitabile l'infelice sede di Aquileia (II, 5).
È la stessa volontà, infine, che in I, 6 fa inserire al Nostro, nella relazione sui movimenti di Teodorico prima di invadere l'Italia, un mediis elapsus Achivis, che equipara per un momento il re dei Goti ad Antenore (Verg. Aen. 1, 242, citato più ampiamente in I, 19, allo scopo di nobilitare la descrizione del territorio forogiuliese).

5. Lo stile, come si sa, è l'uomo. E proprio ad alcuni dei procedimenti suindicati (metafore, allitterazioni, traiectiones) è affidata la mise en relief dei motivi peculiari dell'interesse del Canussio per la storia di Cividale, compendiabili in un senso esclusivo d'amor patrio. Così nel Proemio, al termine di un periodo articolato in tre membri caratterizzati da traiectio o comunque da accentuato distacco tra due elementi sintatticamente legati (adsum Iulii alumnus simul ac suffragator / hereditariis patriae laudibus / tuae occursurus historiae), la polemica anti-Sabellico riceve colore dall'espressione figurata (quas ipse praeteriens) obliquata cervice subnervasti: una duplice metafora che dipinge efficacemente lo storico rivale mentre "passando oltre col capo girato altrove" ignora la gloria cividalese da lui "stroncata" indegnamente (vd. sopra).
In I, 1 nella enumerazione dei ritrovamenti archeologici attestanti l'antichità di Cividale, la passione patria del Canussio rompe il limite della relazione oggettiva (emergunt ... pavimenta; praedium est ...; legitur [epitaphium]), passando all'uso del nos, coinvolgente l'autore in prima persona: reseravimus, effodimus (né è escluso che negli scavi lo stesso Canussio abbia avuto parte effettiva: anche altrove lo stile oggettivo cede il posto all'espressione in prima persona di esperienze dirette a favore della civitas, per es. I, 6 dove il Canussio ricorda - memini namque - la sua partecipazione come ingegnere ai lavori di fortificazione sull'Isonzo; e cfr. II, 7 dove è riferito con gusto e sensibilità di cronista il racconto - Detulit nobis senior ... - di un testimone oculare d'un episodio di guerra, quello dell'Unno ferito e catturato).
In I, 3 la decadenza della città, dovuta all'"iniquità dei tempi" è scandita con malinconica ineluttabilità dalla triplice anafora (conclusa dall'allitterazione) quoad pro incolisfera, pro turre quercus annosa, pro domibus dumi succenturiarentur, avente il mesto epilogo nell'espressiva metafora della città che esala in un soffio il suo antico nome (... Iulium nomen hians exhalaret).
Così un'allitterazione sottolinea il valore dei Cividalesi alla battaglia dell'Isonzo: belli primitias pertinaciter ineuntes, I, 6.
Inoltre l'accumulo (e ancora la traiectio: splendentibus pendent monilia gemmis) contrassegna la descrizione, rutilante d'oro e d'argento, dei tesori del duomo di Cividale in II, 9: Crucesque ... phialas ... vasa, pyxides... Accedunt et aurea pallia ... vestesque aliae ..., e quella della dovizia di prodotti del territorio cividalese in II, 12: Carnium ... casei... pinguisque ferinae.
Ma lo stesso stile mette in evidenza anche altri elementi, che rivelano come nel Canussio la passione patria si alimentasse, in fondo, di valori trascendenti la cara ma pur sempre angusta cerchia delle mura cittadine. Così in II, 14, col membro immo nec nostra memoria dignos, staccato in fine di periodo dopo il verbo di modo finito (vd. sopra), il Canussio giureconsulto bolla gli orecchianti del diritto. E così in II, 12 il nobile Canussio, alla fine di un capitolo tutto improntato alla benignità della natura e del clima cividalesi, dopo aver descritto, in un lungo, disteso periodo, i piacevoli ozi che vi si possono condurre, ammonisce - ne igitur quemquam lateat - che essi sono di esclusivo godimento dei patrizi, mentre il popolo, la plebs gregaria che si procaccia da vivere col lavoro manuale, con la pelle riarsa dal sole, deve soffrire a cielo scoperto pondus diei et aestus (in fine di periodo).
Sono i valori della cultura (per cui clara suscitantur ingenia e a cui è informata nel cap. XIV del II libro la descrizione dei giureconsulti usciti dal glorioso Studio padovano) e quelli dell'humanitas: gli uni e gli altri alimentano dall'interno la passione patria dell'autore e fanno del De restitutione, più che una difesa del campanile, un'opera di civile (oltre che letteraria) dignità.

Note

(*) Ne diamo qui in sintesi il contenuto: preceduta da un carme dedicatorio Ad lectorem in falecei di Quinzio Emiliano Cimbriaco e seguita da un altro del medesimo in onore del ponte sul Natisone, I'opera, in due libri rispettivamente di 19 e 18 capitoli preceduti da un proemio, tratta nel primo libro delle origini contrapposte di Iulium/ Forumiulium / Cividatum (Cividale) e Hunnium (Udine), quindi delle varie vicende di Iulium, passato attraverso le tre devastazioni subite ad opera di Attila, di Teodorico e dei Bavari, fino alla fine del dominio longobardo. Nel secondo libro si fa la storia del patriarcato di Aquileia che vide per sei secoli la sua capitale politica e spirituale in Cividale, e quindi si danno notizie, tra l'altro, sull'architettura religiosa (il duomo di Cividale) e civile (il ponte sul Natisone), la natura del clima e della campagna cividalese, per finire coi capitoli sui vari ordini della città (cavalieri, giureconsulti, magistrati, religiosi, letterati). L'ultimo capitolo rinnova e conclude la polemica contro il Sabellico.


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