Michael von Albrecht (Heidelberg) – Augurat und Auspizien bei Cicero
Augurat und Auspizien sind besonders altertümliche und wichtige Institutionen
der römischen Religion. Da Cicero selbst Augur war, kommt seinem Zeugnis
in diesem Zusammenhang besondere Bedeutung zu.
An erster Stelle fällt auf, dass in seinem Denken eine Kluft besteht zwischen
dem altrömischen Festhalten an geheiligten Traditionen (das besonders in
De re publica und De legibus, aber auch in Ciceros Dichtungen hervortritt und
im ersten Buch De divinatione vom Bruder Quintus mit stoischen Argumenten untermauert
wird) und der (von akademischer Skepsis getragenen) philosophischen Kritik an
der Divination, die Cicero in eigenem Namen im zweiten Buch De divinatione vorträgt.
Zweitens: Der Augur untersteht allein Iuppiter; er hat die Legitimation, andere
Priester und sogar den König zu inaugurieren und die von Beamten angestellten
Auspizien zu begutachten und gegebenenfalls für ungültig zu erklären;
ja nur er darf Iuppiter fragen, ob man für das Heil des römischen Volkes
beten darf. Auf den Auspizien, die keineswegs die Zukunft voraussagen, sondern
nur feststellen, ob eine jeweils geplante Maßnahme im Einklang mit Iuppiters
Willen steht, beruht die Legitimierung der römischen Politik und damit eine
juristisch-religiöse Grundlage ihres Welterfolges.
Drittens: Aus Ciceros Äußerungen zu den Auspizien und zum Augurat
geht hervor, dass man ganz allgemein die Einstellung des Römers zu seiner
Religion nicht als bornierten Konservatismus verstehen darf. Im Unterschied zu
anderen Kulturen (wie z.B. der keltischen, in denen Politiker, sogar Herrscher,
unter Umständen zu Gefangenen ihrer eigenen rituellen Vorschriften wurden),
fanden die Römer in allen Fällen einen gangbaren Weg (oft auch einen
juristisch korrekt erdachten Ausweg), um Maßnahmen durchzusetzen, die ihnen
vernünftig erschienen. Man musste nur durch Auspizien feststellen, dass
man im Einklang mit dem göttlichen Willen handelte; nötigenfalls sogar
die Auspizien (wiederum nach festen Regeln) manipulieren – und zwar durch
das Wort. Dies sollte man nicht nur belächeln; denn in dieser kreativen
Anpassungsfähigkeit liegt ein Unterschied zu dem starren Konservatismus
stärker festgelegter Zivilisationen und eine Voraussetzung der Größe
Roms, die man keineswegs mit Alfred Heuss auf ein „Modernitätsdefizit“ zurückführen
sollte.
Viertens: Cicero weiß um die politische Bedeutung der Auspizien als Mittel,
Volksversammlungen aufzuschieben oder Wahlen von Beamten für ungültig
zu erklären, was in beiden Fällen eine Stärkung der Macht des
Senats bedeutet - im Einklang mit seiner Staatsphilosophie. So sind Augurat und
Auspizien ein wichtiges Element in Ciceros Ringen um die Rettung von Roms republikanischer
Verfassung auf der Basis philosophischer Reflexion.
Dominique Briquel (Paris) – Gli aruspici nell'Imperium Romanum: nuove prospettive per l’Etrusca disciplina
Pare difficile parlare degli aruspici come sacerdoti. Non facevano parte dei
vecchi sacerdozi romani e il loro ruolo non era legato a interventi rituali
occorrenti in determinate occasioni, legati al calendario sacrale oppure ad
altre feste della religione ufficiale di Roma. Inoltre la scienza religiosa,
quell’ Etrusca disciplina che essi mettevano in pratica, appariva, nel
suo stesso nome, come una dottrina straniera. E, almeno inizialmente questi
aruspici non erano romani, ma etruschi chiamati dalla loro provincia, prima
che essa avesse ricevuto la cittadinanza romana. Nel loro ruolo ufficiale costoro
erano chiamati dall’autorità politica quando essa ne sentiva la
necessità: specialmente quando la pax deorum appariva rotta da prodigi
che ovviamente esprimevano l’ira divina, ma di fronte ai quali la religione
romana, nel suo fondo nazionale, non era capace né di interpretarne
il significato, né di indicare quali fossero i mezzi più adatti
per placare gli dei. Fu per questo che il ricorso agli aruspici etruschi suscitava
riserve da parte di taluni, che li sospettavano di usare la loro arte per ingannare
i Romani.
Però essi apparivano indispensabili, sia sul piano ufficiale e pubblico,
sia su quello privato. Il periodo dell’Impero romano mostra che, lungi
dall’essere sparita con la fine dell’indipendenza etrusca e di
quasi tutti i tratti distintivi della cultura etrusca, intesa come cultura
autonoma (come la lingua, che scompare verso la fine del regno di Augusto),
l’aruspicina si era diffusa in tutte le provincie, nelle quali, seguendo
il modello di Roma, molte città avevano organizzato il loro corpo di
aruspici pubblici. E, come già nel periodo repubblicano, essa era caratterizzata
da un enorme diversità : c’era ovviamente poco in comune tra gli
aruspici personali del princeps e i modesti specialisti che proponevano i loro
servizi a clienti privati e vivevano della loro arte divinatoria. Ma, ormai
pienamente integrata nella religione nazionale, la vecchia scienza sacra degli
Etruschi manteneva una vitalità che altri aspetti della tradizione religiosa
romana non avevano più. Appariva anzi come un elemento essenziale di
essa, di fronte alla concorrenza di novità religiose introdotte dall’estero – in
primis la religione cristiana.
José J. Caerols (Madrid) – Ingerenze (e manipolazione) del collegio dei xv viri sacris faciundis nel dibattito politico tardo-repubblicano
Il periodo tardo-repubblicano della religione romana tende ad essere letto
e interpretato dalla ricerca moderna in termini di manipolazione e di subordinazione
alle esigenze della lotta politica. Si tratta di un’immagine ricorrente
che, tuttavia, è stata tacciata già a partire dagli anni finali
del secolo scorso come eccessivamente riduttiva e semplicistica. Eppure continua
a essere considerata valida e a godere di un certo fascino. In questo contesto,
il ruolo svolto dai grandi collegi sacerdotali è stato al centro dell’interesse
degli studiosi, tanto di quelli di religione romana quanto di quelli di storia
romana tardo-repubblicana. Ovviamente non è sfuggito a questa tendenza
un collegio, come quello dei xv viri sacris faciundis, che durante la Repubblica
opera a stretto contatto con le stanze del potere e, quindi, con le vicissitudini
del dibattito politico.
Uno degli esempi che, a priori, meglio possono evidenziare tale dipendenza
da parte di un collegio, nella fattispecie quello dei xv viri sacris faciundis,
alle necessità e alle convenienze della politica, è il noto episodio
della restaurazione del re Tolomeo Aulete sul trono d’Egitto, i cui eventi
principali si snodano tra i mesi finali del 58 a.C. e la primavera del 55 a.C.,
all’ombra degli intrighi e degli interessi, non sempre concordanti, del
primo triumvirato. Come è noto, nel corso della discussione su chi avrebbe
ottenuto il succulento e promettente incarico di rimettere il re sul trono,
ha fatto la sua apparizione un oracolo sibillino che ha sconvolto i piani degli
uni e degli altri, esercitando condizionamenti e, in ultima analisi, impedendo
che fosse presa una decisione ufficiale.
L’episodio è stato oggetto di un’attenzione incessante da
parte degli storici da quando, nel 1902, A. Bouché-Leclerq pubblicò un
lavoro che ha gettato, di fatto, le basi per il suo studio. La prospettiva
che ha dominato la ricerca è stata quella della storia politica e, in
misura minore, della storia economica. Ci sono stati anche importanti contributi
nell’ambito degli studi biografici. Invece l’aspetto religioso
della questione ha ricevuto molta meno attenzione. Normalmente liquidato in
due o tre righe come un caso di falsificazione di un oracolo architettato per
obbedire a determinati interessi politici, solo in lavori molto recenti riferiti
al sibillinismo romano la vicenda è stata oggetto di una trattazione
più dettagliata.
Il proposito del presente intervento è quello di trattare in dettaglio
gli aspetti religiosi di questo episodio. In primo luogo, un approccio obiettivo,
basato da una parte sull’oracolo in questione, e dall’altra sul
ruolo svolto dal collegio dei xv viri sacris faciundis nella sua “produzione” e
nella sua diffusione. In secondo luogo, una messa a fuoco, per così dire,
soggettiva, consistente nell’analisi della documentazione particolarmente
preziosa offerta da Cicerone, testimone di prima mano, nonché attore
secondario di questo dramma, e i cui commenti e le cui osservazioni sull’oracolo
e sui xv viri sacris faciundis, ora elogiativi, ora profondamente critici,
forniscono un’informazione sommamente utile, anche se confusa. L’obiettivo è non
solo quello di comprendere meglio il funzionamento reale del collegio negli
ultimi anni della Repubblica (e, naturalmente, dare un contributo, se possibile,
allo studio dell’episodio di Tolomeo Aulete), ma anche di arricchire
il dibattito sulla strumentalizzazione e sulla manipolazione per fini politici
della religione ufficiale di Roma in questo periodo.
Luciano Canfora (Bari) – La carriera religiosa di Cesare
«Non riteniamo – scrisse Luigi Pareti nella sua imponente Storia
di Roma e del mondo romano – che la religiosità di Cesare sia
fittizia, ossia la mistificazione di uno scettico, per imporsi, come favorito
dalla divinità, alle folle» (vol. III, 1953, p. 790). È una
diagnosi psicologica che richiederebbe qualche puntello documentario, che invece
manca. Ciò che colpisce i moderni è la assunzione di una carica
religiosa così importante da parte di un uomo così impregnato
di filosofia epicurea e dunque culturalmente lontano (si immagina) da una pratica
religiosa così densa di presupposti e comportamenti «superstiziosi» (per
usare un termine caro all’epicureismo romano quale ci è noto soprattutto
da Lucrezio).
Si può osservare però che:
a) la nostra visione dell’epicureismo e del rapporto dell’epicureismo
con la religio-superstitio è mediata da Lucrezio, che forse però ne
esprime una rilettura ‘radicale’;
b) per converso non siamo ben documentati sullo “stile” politico
di epicurei nelle città greche del IV-III a.C. e ben poco sappiamo a
proposito dello stesso Epicuro;
c) il politico romano si ritiene in dovere di scindere nettamente la propria
personalità tra ciò che deve far apparire in pubblico (doveri
politici e sociali) e le privatissime convinzioni. Questo vale per gli epicurei
ma anche – ad es. – per Cicerone De divinatione;
d) che il peso politico della religione e delle sue gerarchie è talmente
presente alla mentalità romana che la scelta cesariana di investire
energie e somme ingenti nella conquista del pontificato ci appare non già come
una scissione della coscienza ma come una necessaria, abile e ben calcolata
mossa politica.
Maria Vittoria Cerutti (Milano) – Operatori rituali e culti di origine orientale a Roma: aspetti di una prospettiva storico-religiosa
La categoria di ‘religioni orientali’, formalizzata in particolare
negli studi di Fr. Cumont, è stata oggetto in tempi recenti di una revisione
critica che, nelle sue forme radicali, ha condotto a esiti decostruttivi, tali
da negare legittimità scientifica alla categoria in questione. Senza
giungere a tali posizioni estreme, l’indagine storico-comparativa propria
della storia delle religioni, alla quale ci ispiriamo in questo nostro intervento,
ha fatto dei ‘culti orientali’ o, meglio, ‘di origine orientale’ (per
usare una formulazione oggi preferita a quella cumontiana) un oggetto privilegiato
e un adeguato banco di prova della propria metodologia. Superando formule definitorie
generali e tendenze onnicomprensive, l’indagine storico-comparativa – in
omaggio alla propria vocazione individuante ma al contempo aperta a più ampie
formulazioni tipologiche – è pervenuta a più rigorose distinzioni
e a ricostruzioni differenziate dei percorsi storici seguiti – tra aspetti
di continuità e aspetti di innovazione – dai diversi complessi
cultuali e – talora – più specificamente mitico-cultuali
che compongono l’ampio panorama dei culti di origine orientale diffusisi
fuori dai propri confini nazionali, soprattutto a partire dall’età ellenistica
e poi in età imperiale, nell’ambito del bacino mediterraneo.
Tale rivisitazione offre elementi utili ai fini dell’impostazione della
questione che qui più direttamente ci concerne, ovvero se sia possibile
individuare e delineare elementi di specificità caratterizzanti gli operatori
rituali (e in particolare quelli che le fonti designano come sacerdotes) attivi
all’interno dei culti di origine orientale, con una particolare attenzione
all’ambito romano e all’età imperiale. Nell’impossibilità e
inopportunità di un giro d’orizzonte al riguardo, l’esame
di alcune specifiche fonti offrirà utili suggestioni nella direzione del
tema proposto.
Werner Eck (Köln) – Priesterliche Vorbilder für den christlichen Bischof in den Gesellschaften der paganen Welt im Imperium Romanum?
Das Christentum entstand in einem Raum mit unzähligen mehr oder weniger autonomen Gemeinden mit unterschiedlichen politischen und gesellschaftlichen Strukturen. Das gilt auch für die Religion und die damit verbundenen kultischen Amtsträger. Gefragt wird, wie weit sich die Entwicklung des Bischofsamtes an Strukturen in seiner Umwelt orientierte bzw. wie weit dies vielleicht eine weitgehend autonome Entwicklung war, die wesentlich aus den spezifischen Gegebenheiten des Christentums erwuchs.
Giovanni Filoramo (Torino) – Continuità e fratture tra sacerdozi pagani e sacerdozio cristiano
La relazione esamina il modo in cui il sacerdozio cristiano si pone nei confronti del sacerdozio pagano in termini di possibili continuità ma anche di radicali fratture. Per questo, la prima parte ricorda brevemente il modo in cui esso si è formato nel corso del II e del III secolo in seguito a una serie di processi interni che hanno portato all’abbandono della dimensione ministeriale caratteristica delle prime comunità dei seguaci di Cristo e al ricupero di una dimensione sacrale che ha nel modello biblico del levita il suo termine di riferimento. Questo processo di sacerdotalizzazione delle originarie cariche ministeriali ruota intorno alla figura dell’episcopos come unico detentore del potere sacro all’interno della comunità cristiana (monoepiscopato). Autori e scritti della prima metà del III secolo testimoniano l’importanza e la diffusione di questo processo. Sulla base di questa trasformazione, la seconda parte della relazione esamina alcune continuità e alcune differenze tra questa figura di sacerdos e le coeve figure di sacerdoti pagani caratteristiche sia dei culti pubblici sia di forme alternative di religiosità come i culti orientali.
Maria Grazia Granino Cecere (Siena) – I salii tra epigrafia e topografia
Nonostante la tradizionale risalenza nel tempo della sua istituzione e il prestigio del quale godeva, la sodalitas dei salii, sia Palatini che Collini, resta ai nostri occhi ancora avvolta nel mistero per molti suoi aspetti: ciò è certamente dovuto alla scarsità delle fonti, come più volte evidenziato da quanti se ne sono interessati più o meno direttamente, ma anche talvolta alla non sufficiente attenzione alle poche disponibili. Negli ultimi decenni gli studi in merito si sono incentrati in particolare sull’iconografia di tali sacerdoti, sul loro abbigliamento e in particolare sugli ancilia da loro portati del corso delle cerimonie processionali, che dovevano suscitare curiosità e partecipazione nella popolazione; ben poco su altri aspetti. Ci si propone ora di porre in evidenza quanto di nuovo può desumersi dalle due più importanti fonti epigrafiche, che riguardano in particolare i salii Palatini, sia da ciò che resta della loro lista di cooptazione (fasti), sia dal ricordo nel Foro di Augusto del restauro delle mansiones ob armorum magnalium custodiam constitutae (CIL VI 2158). Si tratta in un caso e nell’altro di qualche nuovo motivo di riflessione sul rapporto della sodalitas con la topografia dell’Urbe.
Françoise Van Haeperen (Louvain) – Le sacerdotesse del culto di Magna Mater nel mondo romano
In questa relazione, mi interesserò alle sacerdotesse del culto di Magna Mater nel mondo romano occidentale. Questo culto, adottato ufficialmente dallo stato romano alla fine della seconda guerra punica, comprendeva una forma romana ed una forma frigia. È in quanto culto pubblico romano che il culto di Magna Mater si diffonderà in Italia e nelle provincie occidentali dell’Impero, come evidenziato da numerose iscrizioni. Dionigi di Alicarnasso, il cui testo verrà attentamente esaminato nel corso della comunicazione, ci informa sulla presenza a Roma di un sacerdote e di una sacerdotessa della dea. Sulla base della documentazione epigrafica si discuterà quindi del titolo attribuito a queste sacerdotesse, del loro reclutamento e delle loro funzioni, nonché della loro integrazione e visibilità nella loro città. Quando possibile, i risultati saranno confrontati con i dati disponibili per i sacerdoti maschi della dea da un lato, e con studi recenti sulle flaminiche e le sacerdotesse di Cerere dall’altro lato.
Bernhard Linke (Bochum) – Die Macht der Priester und die Transformation der Herrschaft. Die sakraler Würdenträger im Zeitalter Ständekämpfe
Die Ständekämpfe werden in der historischen Überlieferung immer
als ein Konflikt zwischen zwei klar abgegrenzten Gruppen, den Patriziern und
den Plebejern, thematisiert. Im Rahmen der vielfältigen Konflikte rechtfertigen
die Patrizier ihre exklusive Position gegenüber den Plebejern vor allem
durch den Verweis auf ihre religiösen Privilegien, die ihnen eine Monopol¬stellung
bei der Kommunikation mit den Göttern sicherten. So hätten nur sie
die Auspizien, die die unabdingbare Verbindung zu den Göttern darstellten.
Die Plebejer seien hingegen religiös kaum handlungsfähig.
Die vielfältigen religiösen Privilegien der patrizischen Familien,
die selbst in späterer Zeit noch zu greifen sind, verleihen dieser Darstellung
eine erhebliche Glaubwürdig¬keit und unterstreichen die religiöse
Komponente des Machtan¬spruchs der Patrizier. In meinem Beitrag zur Tagung
soll daher auch nicht die Bedeutung der Religion für das Selbstverständnis
der Patrizier geleugnet werden, doch wird zu oft in der Forschungsliteratur
der Monopolanspruch der Patrizier auf sakrale Vertretung des Gemeinwesens gegenüber
den Göttern akzeptiert. Dabei geraten die klaren Indizien für die
religiöse Handlungsfähigkeit der nicht-patrizischen Gesellschaftsgruppen
in der frühen römischen Republik aus dem Blickfeld. So setzten auch
die Plebejer ihre Führungskräfte mit hohem sakralem Aufwand ein.
Im Zuge der lex sacrata erhielten die Volkstribune eine besondere sakrale Weihe,
die ihrer Person eine Unverletzlichkeit gab, die im Grundsatz im weiteren Verlauf
der Republik von niemandem bestritten wurde. Der hohe Status, den die sacrosanctitas
der Volkstribune in der Republik genoß, legt ein beredtes Zeugnis vom
des Potentials auch der Plebejer ab. Trotz aller zur Schau getragenen Verachtung
der Patrizier für den nachrangigen Status der Plebejer wird hier eine
eigenständige sakraler Qualität jedes einzelnen Bürgers deutlich,
die ein klares Fragezeichen hinter die Monopolbehauptung der Patrizier setzt.
Angesichts dieser komplizierten Konstellation wird der Vortrag von der Überzeugung
getragen sein, daß die religiöse Stellung der Patrizier in der frühen
Republik und mit ihr die Entwicklung der gesamten sakralen Organisation neu
zu überdenken ist. Eine klare Unterscheidung zwischen Trägern exklusiver
religiöser Privilegien und den übrigen minderberechtigten Volk scheint
nicht angemessen zu sein. Statt dessen soll das Zeitalter der Ständekämpfe
in Rom als eine Epoche skizziert werden, die im religiösen Bereich weniger
durch starre Strukturen als vielmehr durch langfristige und sehr dynamische
Kämpfe und Transformationsprozesse gekennzeichnet war.
Francisco Marco Simón (Zaragoza) – I druidi e Roma: rappresentazioni e realtà di un tema classico
Nella sua classica monografia sul druidismo, S. Piggott distingueva opportunamente
fra “the-past-in-itself”, “the-past-as-known” attraverso
le fonti letterarie greco-latine e “the-past-as-wished-for”, cioè il
passato voluto. In questa sede prescindiamo in assoluto del neodruidismo, per
concentrarci sulle rappresentazioni dei druidi da parte degli autori classici
e vedere fino a che punto esse corrispondano alla documentazione di quel “passato
in sé” derivata dall’archeologia.
Al confronto con la specializzazione dei sacerdoti romani, i druidi avevano
delle funzioni più olistiche dal punto di vista sociale, “politiche” in
definitiva: saggi detentori della cosmovisione e della sua trasmissione, giudici
e mediatori essenziali, ma anche e soprattutto, monopolizzatori del culto pubblico
e della conoscenza sacra. Più che “sacerdoti” nel senso
romano del termine, erano comunque, anche sacerdoti.
Nelle informazioni degli autori classici convive la duplice visione del “Hard” e
del “Soft Primitivism” incarnata in topici ben conosciuti (sacrifici
umani vs. alte speculazioni e immortalità delle anime), dove ciò nonostante
si apprezza una deriva dalla visione idealizzante delle correnti alessandrine
all’accentuazione dei lineamenti più crudi negli autori del Principato
(passaggio dai sapienti di Posidonio ai magi di Plinio, se si vuole), con l’excursus
cesariano come chiave di un “doppio specchio” rispetto ai romani
o germani, già utilizzato da Erodoto con altri ingredienti tecnici.
Il tempo e lo spazio dei druidi, la loro repressione e neutralizzazione storica,
la valutazione delle informazioni archeologiche che potrebbero mostrare le
loro orme (dal turibulum di Chartres al calendario di Coligny) sono diversi
aspetti presi in considerazione nella relazione.
Attilio Mastrocinque (Verona) – Mitraismo e culto imperiale
La religione romana fu profondamente rivoluzionata in epoca augustea per influsso delle idee sulla divinità dell’imperatore e, in particolare, sull’identificazione fra Augusto e Apollo.Santiago Montero (Madrid) – I sodales Titii: tradizione e innovazione
Innanzitutto si prendono in esame le varie ipotesi formulate dagli antichi sull’origine e sulle funzioni dei sodales Titii. Le fonti mettono in relazione il nome con tre diversi termini: una divinità, Titus o Mutinus Titunus; il prenome del re sabino Titus Tatius; le aves titi. Negli ultimi decenni la storiografia moderna propende per una relazione tra la sodalitas e le aves titi. Nella relazione si presentano le fonti e le glosse tarde che dimostrano come tali aves fossero colombe selvatiche. Secondo questa prospettiva i sodales Titii costituirebbero, pertanto, una confraternita con funzioni augurali, di tradizione sabina, le cui attività non erano incompatibili con quelle svolte dal collegio degli augures. Il canto, il volo, o il modo di mangiare delle colombe potrebbero essere stati esaminati, a mio avviso, soprattutto nell’ambito del potere politico. Questo spiegherebbe le ragioni dell’interesse di Augusto, augure dal 41 a.C., per entrare a far parte della sodalitas. Durante i primi anni della sua carriera politica le colombe intervengono in due episodi decisivi. Prima a Munda, nell’anno 45 a.C., quando molte colombe avevano nidificato su una palma (columbarum nidis), sebbene questo genere di uccelli eviti accuratamente alberi con foglie dure e spesse (Suet., Aug. 94,11). Tale prodigio fu uno dei fattori che maggiormente influirono sulla decisione di Cesare di nominare come erede Ottaviano. La scelta delle colombe come protagoniste del prodigio non è certo casuale dal momento che tradizionalmente le colombe presentano forti vincoli con il potere e la regalità, come ricorda Servio (Columbae non nisi regibus dant auguria quia numquam singulae uolant, sicut rex numquam solus incedit: ad Aen. I 193). Alcuni testi mostrano la circolazione, ancora nel III secolo d.C., di auspici e prodigi di colombe relazionati con la monarchia. Poco dopo le colombe intervengono nuovamente in favore di Ottaviano durante l’assedio di Modena (Frontin. Strat. III 13,8). Si analizza, inoltre, la presenza di colombe profetiche nel santuario oracolare di Dodona (Epiro), con il quale il Princeps mantenne sempre strette relazioni. Il fatto poi che questo volatile fosse conosciuto come l’uccello di Afrodite/Venere, capostipite divina degli Iulii e dea protettrice della sua famiglia, spiega anche l´attenzione speciale che Augusto gli riservò, come dimostra l’immagine della colomba sul rovescio dei denari. Infine prendiamo in esame le testimonianze epigrafiche della sodalitas: 21 iscrizioni che saranno inserite in un’appendice. Tutte appartengono all’epoca alto-imperiale, e permettono di collocare la scomparsa della sodalitas in età severiana.
John A. North (London) – The Pontifices in Politics
The intention of this paper is to search for criteria by which we can judge how effective the college of pontifices would have been as a force in Roman political life in the later centuries of the Republic. A simple comparison has often suggested that the augurs had a range of far more useful powers of intervention, but this is not borne out by the relative distinction of the members of the two colleges. It will be argued that this analysis in any case rests on an outdated model of how Roman ‘religious politics’ would have worked. The most obvious source of direct evidence should be Cicero’s two speeches, de domo and de haruspicum responso, delivered after his return from exile. The two speeches show how central religious issues and arguments were in the long-running and highly political battles between Cicero, Clodius and their supporters. The question will be asked why these two speeches have had a somewhat limited role in this debate and various possible answers considered. A close reading of the de domo will suggest (a) that Cicero’s claims that he is not dealing with the matter of religio require very careful analysis; (b) that the coherence of the argument has been underestimated; and (c) that confusion arises from our very different ideas about what should count as ‘religious’ what as ‘political’ and where if anywhere the boundary between the two should be fixed.Federico Santangelo (Newcastle) – I feziali fra rituale, diplomazia e tradizioni inventate
Il collegio dei feziali non era certo uno dei sacerdozi romani più prestigiosi
ed influenti, ma il suo sviluppo storico e le sue competenze hanno ricevuto
considerevole attenzione, sia da parte degli studiosi della religione romana
che da quelli della storia dell’imperialismo romano, come pure da parte
degli storici del diritto. La bibliografia è amplissima, sin dall’età umanistica;
l’ultimo decennio ha visto un’attività particolarmente intensa.
La vasta produzione scientifica sulla questione non ha però condotto
ad un consenso: al contrario, restano dissensi rilevanti sul merito del problema,
sui principi che presiedono all’uso delle fonti, e su molti aspetti di
dettaglio.
L’intento della relazione è di fare il punto sui principali nodi
ancora irrisolti, soffermandosi su alcuni aspetti di metodo e su alcuni problemi
specifici: la persistenza storica del collegio feziale; il suo ruolo nella
conclusione dei trattati; la formazione di una tradizione storico-antiquaria
sui feziali in epoca tardorepubblicana; i termini dell’intervento di
Ottaviano; la relativa povertà di attestazioni di singoli componenti
del collegio.
John Scheid (Paris) – I sacerdozi "arcaici" restaurati da Augusto. L’esempio dei fratelli arvali
Le restaurazioni religiose di Ottaviano-Augusto sono ben conosciute. Ma di fatto non sappiamo quasi niente sul procedere del restauro e sull’effettiva antichità di questi culti e sacerdozi. Se i fetiales erano ancora nei ricordi di tutti, sul passato dei fratelli arvali, dei sodales Titienses, dei Caeninenses o dei Laurentes Lauinates non possiamo che fare delle supposizioni. Per esaminare questo problema più da vicino, è fondamentale il dossier sugli arvali, quello che ci fornisce il maggior numero di elementi per tentare di ricostruirne la storia. Normalmente si dice, seguendo i miti eziologici, che gli arvali risalgono a Romolo, e che perciò sono arcaici. Se analizziamo il problema più da vicino, vediamo però che nel I secolo a.C. degli arvali non si sapeva quasi più nulla. Le speculazioni etimologiche di Varrone o di Verrio Flacco (tramandate da Festo e da Paolo Diacono) e i diversi miti eziologici sono fondati unicamente sul nome frater arualis. L’analisi del terreno ci ha mostrato che il tempio di Dea Dia risale all’epoca augustea e non sembra esistere prima. Il culto comprende elementi che “facevano arcaico”: fra essi un carmen famoso, alcuni elementi del quale sono anteriori alla fine del IV secolo. Ma anche questo inno sembra artificiale nel contesto e non assomiglia agli altri inni contemporanei. Esso rassomiglia piuttosto ad un’imitazione dei carmina dei salii e di fatto non parla né della Dea Dia né degli altri riti del sacrificio annuale di un’agna a questa Dea. Tutti questi elementi fanno pensare che tutta l’istituzione sia stata creata con elementi del culto di Cerere (Dea Dia, il sacrificio dell’agna, la corona di spighe e forse il carmen) per richiamare in vita questa vecchia istituzione che sopravviveva unicamente come nome. Con altre istituzioni dello stesso genere, il restauro degli arvali faceva vedere in modo spettacolare che Ottaviano intendeva realmente constituere rempublicam.
Adam Szabó (Pecs) – Sacerdoti e funzionari delle città in Illyricum: il caso di Dacia, Pannonia e Noricum
Le istituzioni religiose provinciali durante il principato rappresentano
un tema finora poco studiato. Un compendio completo che comprenda tutto l’Impero
non esiste. Sulle provincie occidentali sono state pubblicate tre brevi sintesi
riassuntive, tra XIX e XX secolo. Queste opere non possono fornire un quadro
completo della tematica.
Maggiore è il numero degli studi sui vari tipi di sacerdozi nelle
provincie: i più recenti riguardano solo in parte i membri delle istituzioni
religiose in ciascuna delle provincie. Una ricerca complessiva sul sacerdozio
provinciale è quindi giustificata da un lato da questa lacuna, dall’altro
dal ruolo che i sacerdoti ricoprivano nella vita delle città e delle
provincie. Opere che forniscano un quadro completo dei sacerdozi nelle provincie
illiriche sono state finora pubblicate sulla Dacia, la Pannonia e il Noricum.
Sono in preparazione delle sintesi che riguardano le altre provincie illiriche.
Fonti sull’argomento sono esclusivamente le iscrizioni. La possibilità stessa
di un’indagine dipende dalla quantità e qualità delle
iscrizioni pervenuteci dalla provincia in questione. Delle tre provincie
indagate in maniera esaustiva sono conosciuti sacerdoti, auguri, flamini
e pontefici, che fanno parte dell’ambito tradizionale della religione
romana. Accanto a loro vi sono i sacerdoti ossia i pontefici massimi delle
provincie. Essi hanno ricoperto i loro uffici nell’ambito della città.
Un numero più piccolo di sacerdoti è conosciuto da vici, stazioni,
e anche dall’ambito militare. La maggior parte di coloro che ricoprivano
un sacerdozio rivestivano anche un ufficio amministrativo. Una caratteristica
del sacerdozio del culto di stato era che l’ufficio religioso fosse
ricoperto insieme ad uffici amministrativi, anche se vi sono dei casi in
cui ciò non avviene. I pontefici massimi provinciali venivano in gran
parte dall’ambito equestre, con una ricca esperienza amministrativa.
Il loro pontificato era il culmine del loro cursus honorum. I sacerdoti delle
città provinciali provenivano dalle fasce sociali più illustri
e spesso rivestivano il sacerdozio contemporaneamente in più insediamenti.
Non si può affermare che condizione del sacerdozio fosse di far parte
dell’ordo decurionum oppure dell’ordo equestris. La premessa
sociale minima era in generale la cittadinanza romana e disponibilità finanziarie
abbastanza ricche. Il contesto sociale, finanziario e legale di quanti rivestivano
sacerdozi diversi da quelli ufficiali è già più variegato.
In generale un sacerdozio si rivestiva a vita, il pontificato massimo annuale
si poteva ripetere. Si rileva una differenza tra il numero dei sacerdoti
attivi delle municipi e colonie. I deputati del sacerdozio nelle colonie
erano almeno due, mentre nei municipi questo ufficio era ricoperto da una
persona. La ricerca sugli uffici sacerdotali comprende il quadro istituzionale
della religione in ciascuna provincia, in rapporto con l’amministrazione
locale.
Zsuzsanna Várhelyi (Boston)– The meetings of priests: their social, cultural and religious significance
Our best insights about the gatherings of priests in the first two centuries
of imperial Rome come from the acta of the Arvales, especially in their excellent
analyses offered by John Scheid. Paradigmatic characteristics of these in
certain ways quite innovative meetings include: (1) social exclusivity, with
participation in full restricted to priestly members (occasionally referencing
the sons of members, and ritual assistants present), (2) a regular schedule
of events with sacrifices and banquets, (3) a location in their own sacred
grooves or in another religious location (often a templum) or in the home
of a member, and (4) the frequent incorporation of religious references not
only to Dea Dia, but also to the well-being of the imperial family.
This paradigm of priestly meetings bears considerable resemblance to the
gatherings of the Augustales as well as to many of those “voluntary” associations
in imperial Italy who self-identified as worshippers (cultores, collegium vel
sim.) of a relatively mainstream deity (such as Silvanus, Hercules, Fortuna,
and now including a genius, numen, or lares in association with the imperial
family). Socially and legally, the festivities of these socially less significant
groups were a world removed from the celebrations of a major priestly college
in Rome, but rich epigraphic and archaeological evidence confirms that many
features of the Arval paradigm were embraced by them – in fact, in
each of the above mentioned four categories.
After discussing this paradigm, my paper primarily focuses on evidence from
imperial Italy relevant to the first two categories listed above, that are
highly relevant to our understanding of these groups in the wider context
of religious life in the first two centuries of the Roman Empire. I discuss
epigraphic and archaeological evidence for the social dynamics of participation,
in particular how membership promoted the desire for vertical social mobility
and how it strengthened horizontal social cohesion among peers. These social
matters are especially relevant when considering what notion of membership/priesthood
these religious associations endorsed. I also review epigraphic evidence
that offer full annual schedules for the festivities to be undertaken by
one of these groups, especially to identify the religious considerations
in the choice of dates. Probably the most significant problem to examine
is to what extent these gatherings embraced the paradigmatic sequence of
sacrifice followed by dinner and how this shapes to what extent we can see
members as participating “priests.” I conclude by placing my
findings in the larger context of recent research on other Gruppenreligionen and on early Christian meal practices in the Roman empire.