Convegno 2012: Sacerdos. Figure del sacro nella società romana

Riassunti degli interventi




Michael von Albrecht (Heidelberg) – Augurat und Auspizien bei Cicero

Augurat und Auspizien sind besonders altertümliche und wichtige Institutionen der römischen Religion. Da Cicero selbst Augur war, kommt seinem Zeugnis in diesem Zusammenhang besondere Bedeutung zu.
An erster Stelle fällt auf, dass in seinem Denken eine Kluft besteht zwischen dem altrömischen Festhalten an geheiligten Traditionen (das besonders in De re publica und De legibus, aber auch in Ciceros Dichtungen hervortritt und im ersten Buch De divinatione vom Bruder Quintus mit stoischen Argumenten untermauert wird) und der (von akademischer Skepsis getragenen) philosophischen Kritik an der Divination, die Cicero in eigenem Namen im zweiten Buch De divinatione vorträgt.
Zweitens: Der Augur untersteht allein Iuppiter; er hat die Legitimation, andere Priester und sogar den König zu inaugurieren und die von Beamten angestellten Auspizien zu begutachten und gegebenenfalls für ungültig zu erklären; ja nur er darf Iuppiter fragen, ob man für das Heil des römischen Volkes beten darf. Auf den Auspizien, die keineswegs die Zukunft voraussagen, sondern nur feststellen, ob eine jeweils geplante Maßnahme im Einklang mit Iuppiters Willen steht, beruht die Legitimierung der römischen Politik und damit eine juristisch-religiöse Grundlage ihres Welterfolges.
Drittens: Aus Ciceros Äußerungen zu den Auspizien und zum Augurat geht hervor, dass man ganz allgemein die Einstellung des Römers zu seiner Religion nicht als bornierten Konservatismus verstehen darf. Im Unterschied zu anderen Kulturen (wie z.B. der keltischen, in denen Politiker, sogar Herrscher, unter Umständen zu Gefangenen ihrer eigenen rituellen Vorschriften wurden), fanden die Römer in allen Fällen einen gangbaren Weg (oft auch einen juristisch korrekt erdachten Ausweg), um Maßnahmen durchzusetzen, die ihnen vernünftig erschienen. Man musste nur durch Auspizien feststellen, dass man im Einklang mit dem göttlichen Willen handelte; nötigenfalls sogar die Auspizien (wiederum nach festen Regeln) manipulieren – und zwar durch das Wort. Dies sollte man nicht nur belächeln; denn in dieser kreativen Anpassungsfähigkeit liegt ein Unterschied zu dem starren Konservatismus stärker festgelegter Zivilisationen und eine Voraussetzung der Größe Roms, die man keineswegs mit Alfred Heuss auf ein „Modernitätsdefizit“ zurückführen sollte.
Viertens: Cicero weiß um die politische Bedeutung der Auspizien als Mittel, Volksversammlungen aufzuschieben oder Wahlen von Beamten für ungültig zu erklären, was in beiden Fällen eine Stärkung der Macht des Senats bedeutet - im Einklang mit seiner Staatsphilosophie. So sind Augurat und Auspizien ein wichtiges Element in Ciceros Ringen um die Rettung von Roms republikanischer Verfassung auf der Basis philosophischer Reflexion.



Dominique Briquel (Paris) – Gli aruspici nell'Imperium Romanum: nuove prospettive per l’Etrusca disciplina

Pare difficile parlare degli aruspici come sacerdoti. Non facevano parte dei vecchi sacerdozi romani e il loro ruolo non era legato a interventi rituali occorrenti in determinate occasioni, legati al calendario sacrale oppure ad altre feste della religione ufficiale di Roma. Inoltre la scienza religiosa, quell’ Etrusca disciplina che essi mettevano in pratica, appariva, nel suo stesso nome, come una dottrina straniera. E, almeno inizialmente questi aruspici non erano romani, ma etruschi chiamati dalla loro provincia, prima che essa avesse ricevuto la cittadinanza romana. Nel loro ruolo ufficiale costoro erano chiamati dall’autorità politica quando essa ne sentiva la necessità: specialmente quando la pax deorum appariva rotta da prodigi che ovviamente esprimevano l’ira divina, ma di fronte ai quali la religione romana, nel suo fondo nazionale, non era capace né di interpretarne il significato, né di indicare quali fossero i mezzi più adatti per placare gli dei. Fu per questo che il ricorso agli aruspici etruschi suscitava riserve da parte di taluni, che li sospettavano di usare la loro arte per ingannare i Romani.
Però essi apparivano indispensabili, sia sul piano ufficiale e pubblico, sia su quello privato. Il periodo dell’Impero romano mostra che, lungi dall’essere sparita con la fine dell’indipendenza etrusca e di quasi tutti i tratti distintivi della cultura etrusca, intesa come cultura autonoma (come la lingua, che scompare verso la fine del regno di Augusto), l’aruspicina si era diffusa in tutte le provincie, nelle quali, seguendo il modello di Roma, molte città avevano organizzato il loro corpo di aruspici pubblici. E, come già nel periodo repubblicano, essa era caratterizzata da un enorme diversità : c’era ovviamente poco in comune tra gli aruspici personali del princeps e i modesti specialisti che proponevano i loro servizi a clienti privati e vivevano della loro arte divinatoria. Ma, ormai pienamente integrata nella religione nazionale, la vecchia scienza sacra degli Etruschi manteneva una vitalità che altri aspetti della tradizione religiosa romana non avevano più. Appariva anzi come un elemento essenziale di essa, di fronte alla concorrenza di novità religiose introdotte dall’estero – in primis la religione cristiana.



José J. Caerols (Madrid) – Ingerenze (e manipolazione) del collegio dei xv viri sacris faciundis nel dibattito politico tardo-repubblicano

Il periodo tardo-repubblicano della religione romana tende ad essere letto e interpretato dalla ricerca moderna in termini di manipolazione e di subordinazione alle esigenze della lotta politica. Si tratta di un’immagine ricorrente che, tuttavia, è stata tacciata già a partire dagli anni finali del secolo scorso come eccessivamente riduttiva e semplicistica. Eppure continua a essere considerata valida e a godere di un certo fascino. In questo contesto, il ruolo svolto dai grandi collegi sacerdotali è stato al centro dell’interesse degli studiosi, tanto di quelli di religione romana quanto di quelli di storia romana tardo-repubblicana. Ovviamente non è sfuggito a questa tendenza un collegio, come quello dei xv viri sacris faciundis, che durante la Repubblica opera a stretto contatto con le stanze del potere e, quindi, con le vicissitudini del dibattito politico.
Uno degli esempi che, a priori, meglio possono evidenziare tale dipendenza da parte di un collegio, nella fattispecie quello dei xv viri sacris faciundis, alle necessità e alle convenienze della politica, è il noto episodio della restaurazione del re Tolomeo Aulete sul trono d’Egitto, i cui eventi principali si snodano tra i mesi finali del 58 a.C. e la primavera del 55 a.C., all’ombra degli intrighi e degli interessi, non sempre concordanti, del primo triumvirato. Come è noto, nel corso della discussione su chi avrebbe ottenuto il succulento e promettente incarico di rimettere il re sul trono, ha fatto la sua apparizione un oracolo sibillino che ha sconvolto i piani degli uni e degli altri, esercitando condizionamenti e, in ultima analisi, impedendo che fosse presa una decisione ufficiale.
L’episodio è stato oggetto di un’attenzione incessante da parte degli storici da quando, nel 1902, A. Bouché-Leclerq pubblicò un lavoro che ha gettato, di fatto, le basi per il suo studio. La prospettiva che ha dominato la ricerca è stata quella della storia politica e, in misura minore, della storia economica. Ci sono stati anche importanti contributi nell’ambito degli studi biografici. Invece l’aspetto religioso della questione ha ricevuto molta meno attenzione. Normalmente liquidato in due o tre righe come un caso di falsificazione di un oracolo architettato per obbedire a determinati interessi politici, solo in lavori molto recenti riferiti al sibillinismo romano la vicenda è stata oggetto di una trattazione più dettagliata.
Il proposito del presente intervento è quello di trattare in dettaglio gli aspetti religiosi di questo episodio. In primo luogo, un approccio obiettivo, basato da una parte sull’oracolo in questione, e dall’altra sul ruolo svolto dal collegio dei xv viri sacris faciundis nella sua “produzione” e nella sua diffusione. In secondo luogo, una messa a fuoco, per così dire, soggettiva, consistente nell’analisi della documentazione particolarmente preziosa offerta da Cicerone, testimone di prima mano, nonché attore secondario di questo dramma, e i cui commenti e le cui osservazioni sull’oracolo e sui xv viri sacris faciundis, ora elogiativi, ora profondamente critici, forniscono un’informazione sommamente utile, anche se confusa. L’obiettivo è non solo quello di comprendere meglio il funzionamento reale del collegio negli ultimi anni della Repubblica (e, naturalmente, dare un contributo, se possibile, allo studio dell’episodio di Tolomeo Aulete), ma anche di arricchire il dibattito sulla strumentalizzazione e sulla manipolazione per fini politici della religione ufficiale di Roma in questo periodo.



Luciano Canfora (Bari) – La carriera religiosa di Cesare

«Non riteniamo – scrisse Luigi Pareti nella sua imponente Storia di Roma e del mondo romano – che la religiosità di Cesare sia fittizia, ossia la mistificazione di uno scettico, per imporsi, come favorito dalla divinità, alle folle» (vol. III, 1953, p. 790). È una diagnosi psicologica che richiederebbe qualche puntello documentario, che invece manca. Ciò che colpisce i moderni è la assunzione di una carica religiosa così importante da parte di un uomo così impregnato di filosofia epicurea e dunque culturalmente lontano (si immagina) da una pratica religiosa così densa di presupposti e comportamenti «superstiziosi» (per usare un termine caro all’epicureismo romano quale ci è noto soprattutto da Lucrezio).
Si può osservare però che:
a) la nostra visione dell’epicureismo e del rapporto dell’epicureismo con la religio-superstitio è mediata da Lucrezio, che forse però ne esprime una rilettura ‘radicale’;
b) per converso non siamo ben documentati sullo “stile” politico di epicurei nelle città greche del IV-III a.C. e ben poco sappiamo a proposito dello stesso Epicuro;
c) il politico romano si ritiene in dovere di scindere nettamente la propria personalità tra ciò che deve far apparire in pubblico (doveri politici e sociali) e le privatissime convinzioni. Questo vale per gli epicurei ma anche – ad es. – per Cicerone De divinatione;
d) che il peso politico della religione e delle sue gerarchie è talmente presente alla mentalità romana che la scelta cesariana di investire energie e somme ingenti nella conquista del pontificato ci appare non già come una scissione della coscienza ma come una necessaria, abile e ben calcolata mossa politica.



Maria Vittoria Cerutti (Milano) – Operatori rituali e culti di origine orientale a Roma: aspetti di una prospettiva storico-religiosa

La categoria di ‘religioni orientali’, formalizzata in particolare negli studi di Fr. Cumont, è stata oggetto in tempi recenti di una revisione critica che, nelle sue forme radicali, ha condotto a esiti decostruttivi, tali da negare legittimità scientifica alla categoria in questione. Senza giungere a tali posizioni estreme, l’indagine storico-comparativa propria della storia delle religioni, alla quale ci ispiriamo in questo nostro intervento, ha fatto dei ‘culti orientali’ o, meglio, ‘di origine orientale’ (per usare una formulazione oggi preferita a quella cumontiana) un oggetto privilegiato e un adeguato banco di prova della propria metodologia. Superando formule definitorie generali e tendenze onnicomprensive, l’indagine storico-comparativa – in omaggio alla propria vocazione individuante ma al contempo aperta a più ampie formulazioni tipologiche – è pervenuta a più rigorose distinzioni e a ricostruzioni differenziate dei percorsi storici seguiti – tra aspetti di continuità e aspetti di innovazione – dai diversi complessi cultuali e – talora – più specificamente mitico-cultuali che compongono l’ampio panorama dei culti di origine orientale diffusisi fuori dai propri confini nazionali, soprattutto a partire dall’età ellenistica e poi in età imperiale, nell’ambito del bacino mediterraneo.
Tale rivisitazione offre elementi utili ai fini dell’impostazione della questione che qui più direttamente ci concerne, ovvero se sia possibile individuare e delineare elementi di specificità caratterizzanti gli operatori rituali (e in particolare quelli che le fonti designano come sacerdotes) attivi all’interno dei culti di origine orientale, con una particolare attenzione all’ambito romano e all’età imperiale. Nell’impossibilità e inopportunità di un giro d’orizzonte al riguardo, l’esame di alcune specifiche fonti offrirà utili suggestioni nella direzione del tema proposto.



Werner Eck (Köln) – Priesterliche Vorbilder für den christlichen Bischof in den Gesellschaften der paganen Welt im Imperium Romanum?

Das Christentum entstand in einem Raum mit unzähligen mehr oder weniger autonomen Gemeinden mit unterschiedlichen politischen und gesellschaftlichen Strukturen. Das gilt auch für die Religion und die damit verbundenen kultischen Amtsträger. Gefragt wird, wie weit sich die Entwicklung des Bischofsamtes an Strukturen in seiner Umwelt orientierte bzw. wie weit dies vielleicht eine weitgehend autonome Entwicklung war, die wesentlich aus den spezifischen Gegebenheiten des Christentums erwuchs.



Giovanni Filoramo (Torino) – Continuità e fratture tra sacerdozi pagani e sacerdozio cristiano

La relazione esamina il modo in cui il sacerdozio cristiano si pone nei confronti del sacerdozio pagano in termini di possibili continuità ma anche di radicali fratture. Per questo, la prima parte ricorda brevemente il modo in cui esso si è formato nel corso del II e del III secolo in seguito a una serie di processi interni che hanno portato all’abbandono della dimensione ministeriale caratteristica delle prime comunità dei seguaci di Cristo e al ricupero di una dimensione sacrale che ha nel modello biblico del levita il suo termine di riferimento. Questo processo di sacerdotalizzazione delle originarie cariche ministeriali ruota intorno alla figura dell’episcopos come unico detentore del potere sacro all’interno della comunità cristiana (monoepiscopato). Autori e scritti della prima metà del III secolo testimoniano l’importanza e la diffusione di questo processo. Sulla base di questa trasformazione, la seconda parte della relazione esamina alcune continuità e alcune differenze tra questa figura di sacerdos e le coeve figure di sacerdoti pagani caratteristiche sia dei culti pubblici sia di forme alternative di religiosità come i culti orientali.



Maria Grazia Granino Cecere (Siena) – I salii tra epigrafia e topografia

Nonostante la tradizionale risalenza nel tempo della sua istituzione e il prestigio del quale godeva, la sodalitas dei salii, sia Palatini che Collini, resta ai nostri occhi ancora avvolta nel mistero per molti suoi aspetti: ciò è certamente dovuto alla scarsità delle fonti, come più volte evidenziato da quanti se ne sono interessati più o meno direttamente, ma anche talvolta alla non sufficiente attenzione alle poche disponibili. Negli ultimi decenni gli studi in merito si sono incentrati in particolare sull’iconografia di tali sacerdoti, sul loro abbigliamento e in particolare sugli ancilia da loro portati del corso delle cerimonie processionali, che dovevano suscitare curiosità e partecipazione nella popolazione; ben poco su altri aspetti. Ci si propone ora di porre in evidenza quanto di nuovo può desumersi dalle due più importanti fonti epigrafiche, che riguardano in particolare i salii Palatini, sia da ciò che resta della loro lista di cooptazione (fasti), sia dal ricordo nel Foro di Augusto del restauro delle mansiones ob armorum magnalium custodiam constitutae (CIL VI 2158). Si tratta in un caso e nell’altro di qualche nuovo motivo di riflessione sul rapporto della sodalitas con la topografia dell’Urbe.



Françoise Van Haeperen (Louvain) – Le sacerdotesse del culto di Magna Mater nel mondo romano

In questa relazione, mi interesserò alle sacerdotesse del culto di Magna Mater nel mondo romano occidentale. Questo culto, adottato ufficialmente dallo stato romano alla fine della seconda guerra punica, comprendeva una forma romana ed una forma frigia. È in quanto culto pubblico romano che il culto di Magna Mater si diffonderà in Italia e nelle provincie occidentali dell’Impero, come evidenziato da numerose iscrizioni. Dionigi di Alicarnasso, il cui testo verrà attentamente esaminato nel corso della comunicazione, ci informa sulla presenza a Roma di un sacerdote e di una sacerdotessa della dea. Sulla base della documentazione epigrafica si discuterà quindi del titolo attribuito a queste sacerdotesse, del loro reclutamento e delle loro funzioni, nonché della loro integrazione e visibilità nella loro città. Quando possibile, i risultati saranno confrontati con i dati disponibili per i sacerdoti maschi della dea da un lato, e con studi recenti sulle flaminiche e le sacerdotesse di Cerere dall’altro lato.



Bernhard Linke (Bochum) – Die Macht der Priester und die Transformation der Herrschaft. Die sakraler Würdenträger im Zeitalter Ständekämpfe

Die Ständekämpfe werden in der historischen Überlieferung immer als ein Konflikt zwischen zwei klar abgegrenzten Gruppen, den Patriziern und den Plebejern, thematisiert. Im Rahmen der vielfältigen Konflikte rechtfertigen die Patrizier ihre exklusive Position gegenüber den Plebejern vor allem durch den Verweis auf ihre religiösen Privilegien, die ihnen eine Monopol¬stellung bei der Kommunikation mit den Göttern sicherten. So hätten nur sie die Auspizien, die die unabdingbare Verbindung zu den Göttern darstellten. Die Plebejer seien hingegen religiös kaum handlungsfähig.
Die vielfältigen religiösen Privilegien der patrizischen Familien, die selbst in späterer Zeit noch zu greifen sind, verleihen dieser Darstellung eine erhebliche Glaubwürdig¬keit und unterstreichen die religiöse Komponente des Machtan¬spruchs der Patrizier. In meinem Beitrag zur Tagung soll daher auch nicht die Bedeutung der Religion für das Selbstverständnis der Patrizier geleugnet werden, doch wird zu oft in der Forschungsliteratur der Monopolanspruch der Patrizier auf sakrale Vertretung des Gemeinwesens gegenüber den Göttern akzeptiert. Dabei geraten die klaren Indizien für die religiöse Handlungsfähigkeit der nicht-patrizischen Gesellschaftsgruppen in der frühen römischen Republik aus dem Blickfeld. So setzten auch die Plebejer ihre Führungskräfte mit hohem sakralem Aufwand ein. Im Zuge der lex sacrata erhielten die Volkstribune eine besondere sakrale Weihe, die ihrer Person eine Unverletzlichkeit gab, die im Grundsatz im weiteren Verlauf der Republik von niemandem bestritten wurde. Der hohe Status, den die sacrosanctitas der Volkstribune in der Republik genoß, legt ein beredtes Zeugnis vom des Potentials auch der Plebejer ab. Trotz aller zur Schau getragenen Verachtung der Patrizier für den nachrangigen Status der Plebejer wird hier eine eigenständige sakraler Qualität jedes einzelnen Bürgers deutlich, die ein klares Fragezeichen hinter die Monopolbehauptung der Patrizier setzt.
Angesichts dieser komplizierten Konstellation wird der Vortrag von der Überzeugung getragen sein, daß die religiöse Stellung der Patrizier in der frühen Republik und mit ihr die Entwicklung der gesamten sakralen Organisation neu zu überdenken ist. Eine klare Unterscheidung zwischen Trägern exklusiver religiöser Privilegien und den übrigen minderberechtigten Volk scheint nicht angemessen zu sein. Statt dessen soll das Zeitalter der Ständekämpfe in Rom als eine Epoche skizziert werden, die im religiösen Bereich weniger durch starre Strukturen als vielmehr durch langfristige und sehr dynamische Kämpfe und Transformationsprozesse gekennzeichnet war.



Francisco Marco Simón (Zaragoza) – I druidi e Roma: rappresentazioni e realtà di un tema classico

Nella sua classica monografia sul druidismo, S. Piggott distingueva opportunamente fra “the-past-in-itself”, “the-past-as-known” attraverso le fonti letterarie greco-latine e “the-past-as-wished-for”, cioè il passato voluto. In questa sede prescindiamo in assoluto del neodruidismo, per concentrarci sulle rappresentazioni dei druidi da parte degli autori classici e vedere fino a che punto esse corrispondano alla documentazione di quel “passato in sé” derivata dall’archeologia.
Al confronto con la specializzazione dei sacerdoti romani, i druidi avevano delle funzioni più olistiche dal punto di vista sociale, “politiche” in definitiva: saggi detentori della cosmovisione e della sua trasmissione, giudici e mediatori essenziali, ma anche e soprattutto, monopolizzatori del culto pubblico e della conoscenza sacra. Più che “sacerdoti” nel senso romano del termine, erano comunque, anche sacerdoti.
Nelle informazioni degli autori classici convive la duplice visione del “Hard” e del “Soft Primitivism” incarnata in topici ben conosciuti (sacrifici umani vs. alte speculazioni e immortalità delle anime), dove ciò nonostante si apprezza una deriva dalla visione idealizzante delle correnti alessandrine all’accentuazione dei lineamenti più crudi negli autori del Principato (passaggio dai sapienti di Posidonio ai magi di Plinio, se si vuole), con l’excursus cesariano come chiave di un “doppio specchio” rispetto ai romani o germani, già utilizzato da Erodoto con altri ingredienti tecnici.
Il tempo e lo spazio dei druidi, la loro repressione e neutralizzazione storica, la valutazione delle informazioni archeologiche che potrebbero mostrare le loro orme (dal turibulum di Chartres al calendario di Coligny) sono diversi aspetti presi in considerazione nella relazione.



Attilio Mastrocinque (Verona) – Mitraismo e culto imperiale

La religione romana fu profondamente rivoluzionata in epoca augustea per influsso delle idee sulla divinità dell’imperatore e, in particolare, sull’identificazione fra Augusto e Apollo.
In età augustea i sacerdoti di Augusto nell’impero romano diventarono i rappresentanti di un culto centrale nell’ideologia imperiale. Un’iscrizione di Halaesa recentemente edita getta luce su un fenomeno finora sconosciuto. In epoca augustea avvennero riunioni di sacerdoti di Apollo provenienti da varie zone dell’impero. In questa cittadina siciliana sappiamo che si radunarono 825 sacerdoti apollinei in assemblea.
Il ruolo di Apollo come modello divino dell’imperatore fu sottolineato con ancor maggiore fervore da Nerone, sotto il quale probabilmente il Mithraismo fu concepito. L’Apollo imperiale era insieme il patrono delle arti e il dio solare supremo. La natura solare ed insieme apollinea del dio imperiale deve aver spinto dei sacerdoti o dei devoti di Mithra-Helios-Apollo a creare le iniziazioni mithriache, nelle quali la fedeltà all’imperatore e il sostegno al sistema imperiale erano costantemente ribadite. Fu creato un culto per l’impero, sostanzialmente diverso dagli antichi culti della repubblica, nel quale si venerava la natura segreta del dio che rappresentava il modello celeste del Genius dell’imperatore.



Santiago Montero (Madrid)I sodales Titii: tradizione e innovazione

Innanzitutto si prendono in esame le varie ipotesi formulate dagli antichi sull’origine e sulle funzioni dei sodales Titii. Le fonti mettono in relazione il nome con tre diversi termini: una divinità, Titus o Mutinus Titunus; il prenome del re sabino Titus Tatius; le aves titi. Negli ultimi decenni la storiografia moderna propende per una relazione tra la sodalitas e le aves titi. Nella relazione si presentano le fonti e le glosse tarde che dimostrano come tali aves fossero colombe selvatiche. Secondo questa prospettiva i sodales Titii costituirebbero, pertanto, una confraternita con funzioni augurali, di tradizione sabina, le cui attività non erano incompatibili con quelle svolte dal collegio degli augures. Il canto, il volo, o il modo di mangiare delle colombe potrebbero essere stati esaminati, a mio avviso, soprattutto nell’ambito del potere politico. Questo spiegherebbe le ragioni dell’interesse di Augusto, augure dal 41 a.C., per entrare a far parte della sodalitas. Durante i primi anni della sua carriera politica le colombe intervengono in due episodi decisivi. Prima a Munda, nell’anno 45 a.C., quando molte colombe avevano nidificato su una palma (columbarum nidis), sebbene questo genere di uccelli eviti accuratamente alberi con foglie dure e spesse (Suet., Aug. 94,11). Tale prodigio fu uno dei fattori che maggiormente influirono sulla decisione di Cesare di nominare come erede Ottaviano. La scelta delle colombe come protagoniste del prodigio non è certo casuale dal momento che tradizionalmente le colombe presentano forti vincoli con il potere e la regalità, come ricorda Servio (Columbae non nisi regibus dant auguria quia numquam singulae uolant, sicut rex numquam solus incedit: ad Aen. I 193). Alcuni testi mostrano la circolazione, ancora nel III secolo d.C., di auspici e prodigi di colombe relazionati con la monarchia. Poco dopo le colombe intervengono nuovamente in favore di Ottaviano durante l’assedio di Modena (Frontin. Strat. III 13,8). Si analizza, inoltre, la presenza di colombe profetiche nel santuario oracolare di Dodona (Epiro), con il quale il Princeps mantenne sempre strette relazioni. Il fatto poi che questo volatile fosse conosciuto come l’uccello di Afrodite/Venere, capostipite divina degli Iulii e dea protettrice della sua famiglia, spiega anche l´attenzione speciale che Augusto gli riservò, come dimostra l’immagine della colomba sul rovescio dei denari. Infine prendiamo in esame le testimonianze epigrafiche della sodalitas: 21 iscrizioni che saranno inserite in un’appendice. Tutte appartengono all’epoca alto-imperiale, e permettono di collocare la scomparsa della sodalitas in età severiana.



John A. North (London) – The Pontifices in Politics

The intention of this paper is to search for criteria by which we can judge how effective the college of pontifices would have been as a force in Roman political life in the later centuries of the Republic. A simple comparison has often suggested that the augurs had a range of far more useful powers of intervention, but this is not borne out by the relative distinction of the members of the two colleges. It will be argued that this analysis in any case rests on an outdated model of how Roman ‘religious politics’ would have worked. The most obvious source of direct evidence should be Cicero’s two speeches, de domo and de haruspicum responso, delivered after his return from exile. The two speeches show how central religious issues and arguments were in the long-running and highly political battles between Cicero, Clodius and their supporters. The question will be asked why these two speeches have had a somewhat limited role in this debate and various possible answers considered. A close reading of the de domo will suggest (a) that Cicero’s claims that he is not dealing with the matter of religio require very careful analysis; (b) that the coherence of the argument has been underestimated; and (c) that confusion arises from our very different ideas about what should count as ‘religious’ what as ‘political’ and where if anywhere the boundary between the two should be fixed.



Federico Santangelo (Newcastle) – I feziali fra rituale, diplomazia e tradizioni inventate

Il collegio dei feziali non era certo uno dei sacerdozi romani più prestigiosi ed influenti, ma il suo sviluppo storico e le sue competenze hanno ricevuto considerevole attenzione, sia da parte degli studiosi della religione romana che da quelli della storia dell’imperialismo romano, come pure da parte degli storici del diritto. La bibliografia è amplissima, sin dall’età umanistica; l’ultimo decennio ha visto un’attività particolarmente intensa. La vasta produzione scientifica sulla questione non ha però condotto ad un consenso: al contrario, restano dissensi rilevanti sul merito del problema, sui principi che presiedono all’uso delle fonti, e su molti aspetti di dettaglio.
L’intento della relazione è di fare il punto sui principali nodi ancora irrisolti, soffermandosi su alcuni aspetti di metodo e su alcuni problemi specifici: la persistenza storica del collegio feziale; il suo ruolo nella conclusione dei trattati; la formazione di una tradizione storico-antiquaria sui feziali in epoca tardorepubblicana; i termini dell’intervento di Ottaviano; la relativa povertà di attestazioni di singoli componenti del collegio.



John Scheid (Paris) – I sacerdozi "arcaici" restaurati da Augusto. L’esempio dei fratelli arvali

Le restaurazioni religiose di Ottaviano-Augusto sono ben conosciute. Ma di fatto non sappiamo quasi niente sul procedere del restauro e sull’effettiva antichità di questi culti e sacerdozi. Se i fetiales erano ancora nei ricordi di tutti, sul passato dei fratelli arvali, dei sodales Titienses, dei Caeninenses o dei Laurentes Lauinates non possiamo che fare delle supposizioni. Per esaminare questo problema più da vicino, è fondamentale il dossier sugli arvali, quello che ci fornisce il maggior numero di elementi per tentare di ricostruirne la storia. Normalmente si dice, seguendo i miti eziologici, che gli arvali risalgono a Romolo, e che perciò sono arcaici. Se analizziamo il problema più da vicino, vediamo però che nel I secolo a.C. degli arvali non si sapeva quasi più nulla. Le speculazioni etimologiche di Varrone o di Verrio Flacco (tramandate da Festo e da Paolo Diacono) e i diversi miti eziologici sono fondati unicamente sul nome frater arualis. L’analisi del terreno ci ha mostrato che il tempio di Dea Dia risale all’epoca augustea e non sembra esistere prima. Il culto comprende elementi che “facevano arcaico”: fra essi un carmen famoso, alcuni elementi del quale sono anteriori alla fine del IV secolo. Ma anche questo inno sembra artificiale nel contesto e non assomiglia agli altri inni contemporanei. Esso rassomiglia piuttosto ad un’imitazione dei carmina dei salii e di fatto non parla né della Dea Dia né degli altri riti del sacrificio annuale di un’agna a questa Dea. Tutti questi elementi fanno pensare che tutta l’istituzione sia stata creata con elementi del culto di Cerere (Dea Dia, il sacrificio dell’agna, la corona di spighe e forse il carmen) per richiamare in vita questa vecchia istituzione che sopravviveva unicamente come nome. Con altre istituzioni dello stesso genere, il restauro degli arvali faceva vedere in modo spettacolare che Ottaviano intendeva realmente constituere rempublicam.



Adam Szabó (Pecs) – Sacerdoti e funzionari delle città in Illyricum: il caso di Dacia, Pannonia e Noricum

Le istituzioni religiose provinciali durante il principato rappresentano un tema finora poco studiato. Un compendio completo che comprenda tutto l’Impero non esiste. Sulle provincie occidentali sono state pubblicate tre brevi sintesi riassuntive, tra XIX e XX secolo. Queste opere non possono fornire un quadro completo della tematica.
Maggiore è il numero degli studi sui vari tipi di sacerdozi nelle provincie: i più recenti riguardano solo in parte i membri delle istituzioni religiose in ciascuna delle provincie. Una ricerca complessiva sul sacerdozio provinciale è quindi giustificata da un lato da questa lacuna, dall’altro dal ruolo che i sacerdoti ricoprivano nella vita delle città e delle provincie. Opere che forniscano un quadro completo dei sacerdozi nelle provincie illiriche sono state finora pubblicate sulla Dacia, la Pannonia e il Noricum. Sono in preparazione delle sintesi che riguardano le altre provincie illiriche. Fonti sull’argomento sono esclusivamente le iscrizioni. La possibilità stessa di un’indagine dipende dalla quantità e qualità delle iscrizioni pervenuteci dalla provincia in questione. Delle tre provincie indagate in maniera esaustiva sono conosciuti sacerdoti, auguri, flamini e pontefici, che fanno parte dell’ambito tradizionale della religione romana. Accanto a loro vi sono i sacerdoti ossia i pontefici massimi delle provincie. Essi hanno ricoperto i loro uffici nell’ambito della città. Un numero più piccolo di sacerdoti è conosciuto da vici, stazioni, e anche dall’ambito militare. La maggior parte di coloro che ricoprivano un sacerdozio rivestivano anche un ufficio amministrativo. Una caratteristica del sacerdozio del culto di stato era che l’ufficio religioso fosse ricoperto insieme ad uffici amministrativi, anche se vi sono dei casi in cui ciò non avviene. I pontefici massimi provinciali venivano in gran parte dall’ambito equestre, con una ricca esperienza amministrativa. Il loro pontificato era il culmine del loro cursus honorum. I sacerdoti delle città provinciali provenivano dalle fasce sociali più illustri e spesso rivestivano il sacerdozio contemporaneamente in più insediamenti. Non si può affermare che condizione del sacerdozio fosse di far parte dell’ordo decurionum oppure dell’ordo equestris. La premessa sociale minima era in generale la cittadinanza romana e disponibilità finanziarie abbastanza ricche. Il contesto sociale, finanziario e legale di quanti rivestivano sacerdozi diversi da quelli ufficiali è già più variegato. In generale un sacerdozio si rivestiva a vita, il pontificato massimo annuale si poteva ripetere. Si rileva una differenza tra il numero dei sacerdoti attivi delle municipi e colonie. I deputati del sacerdozio nelle colonie erano almeno due, mentre nei municipi questo ufficio era ricoperto da una persona. La ricerca sugli uffici sacerdotali comprende il quadro istituzionale della religione in ciascuna provincia, in rapporto con l’amministrazione locale.



Zsuzsanna Várhelyi (Boston)The meetings of priests: their social, cultural and religious significance

Our best insights about the gatherings of priests in the first two centuries of imperial Rome come from the acta of the Arvales, especially in their excellent analyses offered by John Scheid. Paradigmatic characteristics of these in certain ways quite innovative meetings include: (1) social exclusivity, with participation in full restricted to priestly members (occasionally referencing the sons of members, and ritual assistants present), (2) a regular schedule of events with sacrifices and banquets, (3) a location in their own sacred grooves or in another religious location (often a templum) or in the home of a member, and (4) the frequent incorporation of religious references not only to Dea Dia, but also to the well-being of the imperial family.
This paradigm of priestly meetings bears considerable resemblance to the gatherings of the Augustales as well as to many of those “voluntary” associations in imperial Italy who self-identified as worshippers (cultores, collegium vel sim.) of a relatively mainstream deity (such as Silvanus, Hercules, Fortuna, and now including a genius, numen, or lares in association with the imperial family). Socially and legally, the festivities of these socially less significant groups were a world removed from the celebrations of a major priestly college in Rome, but rich epigraphic and archaeological evidence confirms that many features of the Arval paradigm were embraced by them – in fact, in each of the above mentioned four categories.
After discussing this paradigm, my paper primarily focuses on evidence from imperial Italy relevant to the first two categories listed above, that are highly relevant to our understanding of these groups in the wider context of religious life in the first two centuries of the Roman Empire. I discuss epigraphic and archaeological evidence for the social dynamics of participation, in particular how membership promoted the desire for vertical social mobility and how it strengthened horizontal social cohesion among peers. These social matters are especially relevant when considering what notion of membership/priesthood these religious associations endorsed. I also review epigraphic evidence that offer full annual schedules for the festivities to be undertaken by one of these groups, especially to identify the religious considerations in the choice of dates. Probably the most significant problem to examine is to what extent these gatherings embraced the paradigmatic sequence of sacrifice followed by dinner and how this shapes to what extent we can see members as participating “priests.” I conclude by placing my findings in the larger context of recent research on other Gruppenreligionen and on early Christian meal practices in the Roman empire.